Manfredi, ‘santo martire’ del Purgatorio
Alla luce della teoria concenente la generazione dei ‘corpi aerei’ professata dal poeta latino Stazio nel XXV canto del Purgatorio, piuttosto singolare ci appare l’anima di Manfredi così come essa viene descritta da Dante nel terzo canto del secondo Regno dell’oltretomba. Quel figlio di Federico II che aveva riacceso le speranze ghibelline della Penisola prima che naufragassero, nel 1266, a Benevento sotto le armi di Carlo d’Angiò, appare all’Alighieri ‘segnata’ dai colpi di spada che, proprio in quella battaglia, causarono la sua morte: il primo che «un de’ cigli […] avea reciso», e il secondo che gli aveva provocato «una piaga in sommo ’l petto». Perché, dunque, questa descrizione ci appare tanto singolare? Se, nella precedente Cantica infernale, Dante ci aveva parlato di anime straziate dalle torture demoniache, lacerate dalle sferzate di spade e scudisci, immerse nello sterco umano e afflitte dalle più orribili malattie che deturpano il corpo umano, come stupirci delle due cicatrici che appaiono sulla figura di Manfredi? Lo stupore nasce dal fatto che, stando a quanto esplicato da Stazio in merito alla rigenerazione del corpo aereo, questo non dovrebbe presentarsi con segni di ferite.
Se Dante ha incontrato nel suo viaggio ultraterreno anime che lui stesso è stato in grado di identificare in quanto personalmente conosciute sulla terra, ciò è dovuto al fatto che quando esse si sono separate dal corpo che avevano vivificato prima della morte hanno mantenuto ancora quelle forze che in vita avevano plasmato la materia corporea secondo i tratti somatici che contraddistinguono ogni individuo. In altre parole, e per usare un paragone, è come se nei regni dell’oltretomba vi andasse il nostro DNA il quale poi, seguendo il proprio codice genetico, agisse sulla materia aerea di cui si trova circondato ricreando in tutto e per tutto la persona così come essa era in vita. Se dunque un individuo fosse nato, poniamo, con un braccio più corto dell’altro, tale difetto inscritto nel suo DNA si ripresenterebbe anche nell’aldilà; cosa che, invece, non accadrebbe qualora il braccio lo avesse perso a seguito di un incidente: in questo caso, infatti, l’arto che era venuto a mancare per cause del tutto esterne verrebbe perfettamente rigenerato.
Com’è possibile dunque che delle ferite ricevute in battaglia contraddistinguano l’anima di Manfredi? Ci troviamo davanti ad una contraddizione o a una licenza del poeta? Oppure l’aspetto di questa anima ha un significato preciso e ‘calcolato’? Poiché, a nostra conoscenza, nessun commentatore sia antico che moderno ha mai messo in luce questa singolarità del III canto del Purgatorio, crediamo che da una riflessione in merito sia possibile stabilire con certezza quale sia lo ‘statuto’ che Dante ha inteso dare a questa anima. In generale, i dantisti sono concordi nel sottolineare che la figura di Manfredi stia ad indicare non solo quanto e come la grazia di Dio, unitamente alla Sua bontà, possano salvare l’uomo che si pente in punto di morte dei propri peccati, ma anche, con la sua morte, la crudele azione persecutoria che la Chiesa perpetrava nei confronti di chi, come Manfredi, non si piegasse al suo potere temporale. Secondo Walter Binni, seguito da Giuseppe Giacalone, il modo in cui il figlio di Federico II si presenta a Dante indicando la ferita al petto che lo ha ucciso rimanderebbe al passo evangelico in cui il Cristo appare nel Cenacolo agli Apostoli mostrando loro i segni del martirio; in tal senso, dunque, il parallelo tra le due figure farebbero dello svevo re di Sicilia un martire. Aggiungiamo, però, che quest’idea del martirio di Manfredi operato dalla stessa Chiesa, già presente al tempo di Dante grazie alla propaganda ghibellina in lotta contro il guelfismo, non è stata fino ad adesso suffragata da alcun dato certo. A nostro avviso, invece, Dante ha fornito ai suoi lettori la chiave per poter affermare che Manfredi sia realmente un martire proprio descrivendocelo ‘segnato’ da quelle cicatrici che un’anima non dovrebbe avere per i motivi suddetti.
Dante, come noto, si formò intellettualmente «ne le scuole de li religiosi» studiando le dottrine filosofico-teologiche veicolate dalla Scolastica; e pertanto un lettore erudito del suo tempo non avrebbe avuto difficoltà a leggere in quelle cicatrici il segno evidente che Manfredi era stato dall’Alighieri investito della palma del martirio. Parlando della resurrezione dei corpi dopo il Giudizio Finale, il celebre teologo domenicano Tommaso d’Aquino aveva affermato che questi risorgeranno senza quei difetti che avevano avuto in vita dal momento che la natura umana è stata da Dio creata perfetta. Ora, sebbene questa tesi non si allinei con quanto emerso nella teoria dantesca espressa da Stazio relativamente alla formazione del corpo aereo nell’oltretomba prima del giorno del Giudizio, emerge nell’opera dell’Aquinate, relativamente ai corpi dei santi martiri che hanno sacrificato la propria vita per la fede, un’idea che Dante aveva senz’altro alla mente quando scrisse il terzo canto del Purgatorio. Secondo Tommaso i corpi di quest’ultimi potranno risorgere non nella perfezione prevista dal disegno divino, ma segnati dalle ferite per le quali morirono in vita. E ciò, ovviamente, non perché sia loro imputabile una qualche imperfezione; anzi, quelle orribili ferite che rifulgeranno quale inequivocabile segno della loro santità, saranno per essi un carattere distintivo, una sorta di ‘medaglia al valore’ di cui non tutti possono fregiarsi. Anche il francescano Bonaventura da Bagnoregio, a dimostrazione del fatto che Dante si era richiamato ad una dottrina comune ai teologi del XIII secolo, aveva affermato che la presenza di cicatrici sui corpi gloriosi degli eletti altro non saranno se non un decoro maggiore alla loro santità. Secondo la dottrina scolastica studiata da Dante, l’unico caso in cui un ‘difetto’ fisico si ripresenterà nel corpo risorto è dunque quello delle ferite subite per il martirio, e Manfredi mostrando le sue cicatrici rende noto al poeta e al lettore di essere appunto un martire. Un martire sui generis, ovviamente, dal momento che lui non si era immolato per la fede: a renderlo tale era stata quella Chiesa terrena che tante volte, nella Commedia, Dante accusa di aver perduto la sua funzione salvifica e di essersi snaturata perseguendo un potere temporale che non le appartiene. Il re ghibellino che aveva lottato contro il potere del papa viene dunque fatto passare dall’Alighieri come ‘martire politico’ proprio grazie alla dottrina teologica di cui abbiamo parlato; un escamotage, il suo, che rende ancora più pungente l’implicita invettiva al potere ecclesiastico sottesa alla figura di Manfredi.