La «matta bestialitade»: prospettive e riflessioni
A scorrere, tanto nel Convivio quanto nella Commedia, le occorrenze dei termini ‘bestia/bestialitade’ ne emerge, in generale, il senso prettamente aristotelico: coloro i quali, a vario titolo, si trovino ad essere privi della facoltà raziocinante sono paragonabili agli animali bruti. Ma almeno una volta, sia nella prima che nella seconda opera, Dante accompagna il sostantivo bestialitade con un aggettivo che ne rafforza e ne specifica il significato: nel caso di Convivio II, viii 8 si afferma «che intra tutte le bestilialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita» mentre, in Inferno XI, 82-83 il poeta fiorentino, per bocca di Virgilio, fa riferimento alla «matta bestialitade». E se nel primo caso non v’è dubbio alcuno che Dante si stesse riferendo ai seguaci del filosofo greco Epicuro che pensavano che l’anima dell’uomo, in quanto materiale, perisse con il corpo, nell’altro l’espressione matta bestialitade, non essendo esplicitamente declinata su alcuna tipologia di peccatori, ha lasciata aperta la questione del suo senso.
Per avanzare un’ipotesi circa l’indentificazione di questa categoria di dannati conviene riprendere, seppur brevemente, le fila del Canto XI. Superate le mura della città di Dite e attraversata la piana degli eresiarchi fino al limitare del «profondo abisso» che dovrà essere percorso, Virgilio anticipa a Dante che i peccatori che d’ora in poi incontrerà lungo il tragitto, violenti e traditori, si trovano all’inferno in quanto le loro malvagie azioni sono state mosse da malizia. Dal primo girone dove sono tormentati i violenti contro il prossimo alla Giudecca che ospita chi ha tradito i propri benefattori, la spiegazione di Virgilio procede chiara e lineare; tuttavia a Dante resta un dubbio da sciogliere, un dubbio che fa andare il suo maestro su tutte le furie in quanto pericolosamente vicino ad una opinione eretica che Tommaso d’Aquino aveva fatta discendere, nel De malo, dalla filosofia stoica. Per quale motivo i dannati incontrati prima di entrare nella città di Dite subiscono pene meno gravi rispetto a quelli che si dovranno incontrare adesso? Se anche loro sono morti nella collera di Dio, quale il motivo di questa diversa gradazione di pena? E se, al contrario, non stanno sotto l’ira divina perché sono dannati? In buona sostanza, proprio come gli eretici impugnati dall’Aquinate, Dante sembra cadere nell’errore di ritenere l’offesa a Dio un reato impossibile da quantificare e quindi impossibile da punire con minore o maggiore asprezza. Il rimprovero di Virgilio a tale delirio della ragione («perché tanto delira / …lo ’ngegno tuo da quel che sòle?») rimanda all’apertura del libro VII dell’Etica Nicomachea di Aristotele:
Non ti rimembra di quelle parole
con le quali la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ’l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
Di fatto, come si diceva, una citazione della traduzione latina del passo aristotelico dove si afferma che «circa mores fugiendarum tres sunt species, malitia, incontinentia et bestialitas» («riguardo i costumi, si devono rifuggire tre specie di vizi: la malizia, l’incontinenza e la bestialità») ma che ha lasciato gli esegeti danteschi nel più totale imbarazzo dal momento che in esso non si riscontra alcun accenno a quella follia che contraddistingue la bestialitade di cui parla Virgilio.
Chi sono dunque i peccatori che rientrano nella ‘categoria’ della «matta bestialitade»? Il problema, come è stato sottolineato anche dalla Chiavacci Leonardi, nasce dalla funzione che si deve attribuire al termine «malizia» del verso 82: nel caso in cui essa fosse la medesima di quella del precedente verso 22, vale a dire riunire in un’unica tipologia di peccato tanto i violenti che i traditori, allora la «matta bestialitade» riguarderebbe uno specifico gruppo di dannati che deve essere distinto dagli incontinenti, dai violenti e dai traditori; invece, nel caso in cui si intenda con «malizia» il solo peccato di frode, la «matta bestialitade» si declinerebbe, in generale, su tutti i violenti.
Ora, a leggere «malizia» nel primo senso, l’unica categoria di dannati alla quale ci sembra possibile predicare la folle bestialità altra non può essere se non quella di coloro «che l’anima col corpo morta fanno», ovvero di quegli epicurei la cui dottrina era stata stigmatizzata nel Convivio per essere «stoltissima, vilissima e dannosissima»; del resto, anche in questo trattato Dante considera i seguaci di Epicuro come una setta a sé che, per aver supposto essere l’anima mortale, niente ha a che fare con «qualunque altri vivano secondo alcuna ragione», siano essi «Gentili […], Giudei, Saracini [o] Tartari»: chiunque faccia uso dell’intelletto, insomma, non può non pervenire alla verità che l’anima dell’uomo sopravvive al corpo. Ancora, dobbiamo considerare che questi eretici, nella topografia infernale della Commedia, sono posti in una regione a sé stante: al di là delle mura della città di Dite, e dunque non compresi tra gli incontinenti, e antistante al «profondo abisso» dove sono puniti quei peccati di «malizia» che «o con forza o con frode altrui contrista». Tra l’altro questa sorta di ‘asetticità’ degli eretici rispetto agli altri dannati poteva essere un’eco di ciò che Tommaso d’Aquino aveva affermato nel suo commento alle Sentenze di Pietro Lombardo prendendo le mosse proprio dall’Etica di Aristotele: come costui aveva posto la bestialità al di là dei peccati di malizia, così i santi hanno considerato l’eresia un peccato a se stante, non ascrivibile all’interno di qualsiasi altro genere di vizio.
Al contrario, se con «malizia» intendiamo la sola frode che «può l’omo usare in colui che ’n lui fida / e in quel che fidanza non imborsa» abbiamo già detto che con bestialitade si dovrà intendere la violenza: invero, non pochi sono stati quei commentatori sia antichi che moderni della Commedia ad optare per questa soluzione sostenendo che proprio a guardia di tutto il settimo cerchio dei violenti è stata posta «quell’ira bestial» del mostruoso Minotauro.
A nostro giudizio ciascuna delle due prospettive presenta bensì ottimi argomenti per essere accettata ma nessuna delle due è esente da critiche: i partigiani della seconda, ad esempio, sostengono, non del tutto a torto, che l’impianto prettamente aristotelico utilizzato da Dante per suddividere le colpe infernali non poteva di certo contemplare il peccato di eresia e, d’altro canto, riteniamo che la seconda prospettiva riposi su di una ‘incomprensione testuale’ che ne ha inficiato, nei secoli, il reale portato intellettuale. L’origine di tale incomprensione è rintracciabile nel commento al canto XI dell’Inferno di Giovanni Boccaccio; giunto infatti ai versi 82-83, il celebre autore del Decameron, proponendo una sinonimia dei termini ‘mattezza’ e ‘bestialitade’, affermava che «questo adiettivo, matta, pose qui l’autore più in servigio della rima, che per bisogno che n’avesse la bestialità, perciocché bestialità e mattezza si posson dire essere una medesima cosa». Sebbene, dunque, non sia da sottovalutare l’interpretazione di chi ha inteso essere la «matta bestialitade» la disposizione d’animo che contraddistingue i violenti del settimo cerchio infernale, l’assimilazione dei termini mattezza e bestialità ha fatto sì che si venissero a creare non pochi equivoci e fraintendimenti, non ultimo – secondo questa prospettiva – quello di ritenere che il termine «malizia» del verso 82 stia a significare tanto i violenti che i fraudolenti.
Il problema cui si sono trovati davanti i commentatori del passo dantesco, a cominciare dal Boccaccio, è stato quello di giustificare la predicazione dell’aggettivo matta al sostantivo bestialitade la cui estensione semantica, in effetti, copre quella della mattezza: come può, insomma, un qualcosa privo di ragione essere matto se la follia, di per sé, implica l’assenza di ragione? A questa domanda si potrebbe tuttavia rispondere con la medesima veemenza con la quale Virgilio aveva ripreso Dante quando questi gli aveva chiesto come la dannazione potesse contemplare pene maggiori e minori. Ritenere infatti che la «matta bestialitade» altro non sia che un mero pleonasmo o un’esigenza di rima significa non tornare con la mente alle dottrine filosofico-teologiche alle quali il poeta fiorentino si era formato e, più precisamente, a quei luoghi dei commenti alla Fisica di Aristotele dove i grandi pensatori della Scolastica si erano trovati davanti alla perentoria affermazione che l’opera della natura è opera di un’Intelligenza – «opus naturae est opus Intelligentiae». Neppure immaginabile che Dante non avesse mai incontrato, nei suoi studi filosofici, un adagio che, solo nelle opere di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino ricorre almeno una trentina di volte – senza citare le occorrenze riscontrabili in Averroé o nei maestri delle Arti.
L’idea che tutto ciò che esiste in natura sia mosso da una intelligenza, una volta letta ed inserita nell’ottica cristiana, divenne dunque la chiave di volta per dimostrare che la natura stessa opera finalisticamente anche laddove l’oggetto in questione sia un ente inanimato o privo di ragione. Finalisticamente: vale a dire verso il Sommo Fine, dunque Dio, il quale coincide con il Bene assoluto. Tommaso d’Aquino aveva non a caso dedicato un intero capitolo del terzo libro della sua Summa contra Gentiles, il XXIV, alla dimostrazione che anche le cose prive di ragione, poiché governate da un’intelligenza a sua volta mossa da Dio, desiderano raggiungere il bene – «Quomodo appetunt bonum etiam quae cognitione carent» – concludendo che persino gli animali bruti perseguono una similitudine al Sommo Ente.
Detto ciò è ovvio che la sola bestialità, nell’ottica del canto XI dell’Inferno, non poteva essere considerata una colpa dal momento che, di per sé, un uomo privo di ragione resta pur sempre un essere naturale inclinato al bene. Pertanto, la mattezza che il Boccaccio aveva definito essere un «servigio della rima» risulterebbe avere per Dante tutt’altro valore semantico e concettuale; i violenti del VII cerchio, dai tiranni ai suicidi, dai sodomiti agli usurai, dagli omicidi ai bestemmiatori, hanno offeso Dio non tanto per una mancanza di ragione quanto per aver pervertito – con la volontà, evidentemente – la naturale bontà che pertiene ad ogni creatura: «matta bestialitade» starebbe allora a significare ‘più che bestia’, un primato che, nell’intero Creato, si direbbe spettare solo all’uomo.